Alfetta (scheda tecnica)

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AUDACE

Alfista Intermedio
20 Marzo 2008
3,393
68
49
BG
Regione
Lombardia
Alfa
GT
Motore
1300 Junior (1967)
Il contesto in cui nacque l'Alfetta


L'Alfetta (progetto n.116) fu la figlia legittima della confusione marketing che regnava all'Alfa Romeo nel 1969. La rivoluzione culturale di quel decennio aveva modificato il "modus vivendi" della società italiana (e non solo), intaccando persino i gusti personali. Di fatto, in Alfa, dubitavano che le sagome delle loro "1750" e "Giulia" avrebbero retto l'impatto geometrico di quegli anni, ma neppure si voleva scontentare la clientela tradizionale. In un primo tempo si decise di rinnovare la "1750" con aggiornamenti estetici ed una nuova motorizzazione più "europea" che, nel 1971, veniva presentata con la denominazione "2000". Nello stesso anno si dette anche il via alla realizzazione del progetto "116", accantonato l'anno precedente.
Al fine di sottolineare lo stretto collegamento dei modelli di serie con le tradizioni sportive Alfa Romeo, venne scelto il nome di Alfetta, ufficializzando così l'affettuoso nomignolo con cui i tifosi avevano soprannominato le Alfa Romeo 158 e 159 da Formula 1 che vinsero il campionato mondiale nel 1950 e 1951 con Nino Farina e Juan Manuel Fangio. Con quei bolidi da competizione, la nuova Alfetta condivideva la soluzione del raggruppamento in unico blocco di cambio, frizione, differenziale e freni sul ponte posteriore.

Il Centro Stile Alfa, guidato da Giuseppe Scarnati, preparò così una vettura intermedia tra la "2000" e la "Giulia", pronta a sostituire il primo modello che avesse perso troppo terreno sul mercato. Linee tese e spigolose e una particolare attenzione allo spazio interno, per vestire uno schema tradizionale e prestigioso da berlina sportiva, settore in cui le Alfa Romeo, all'epoca, erano considerate il "non plus ultra".
Il nuovo modello si dimostrò ottimo, sia per estetica che per prestazioni, ma le previste polemiche infuriarono ugualmente, dividendo gli "alfisti" nella fazioni "modernista" e "tradizionalista". Senza riuscire a prendere una decisione, l'azienda cercò di accontentare entrambe, lasciando in produzione la "2000" fino al 1976 e la "Giulia" fino al 1978. Ragion per cui, l'Alfetta venne prima ostacolata dalla concorrenza interna e, arrivato il momento di spiccare il volo, era ormai un'automobile "anziana" per gli standard tecnologici che un pubblico dal palato fine come gli "alfisti" si aspettava da un'Alfa Romeo. Questo atteggiamento irresoluto tra passato e futuro, fu una delle principali cause della crisi che affossò l'azienda nel decennio successivo e la portò, ormai esangue, nell'orbita del Gruppo Fiat.

L'automobile

Presentata nel 1972 per sostituire la 1750, un'evoluzione stilistica e meccanica della Giulia, l’Alfetta fu senza dubbio una delle Alfa Romeo più innovative del dopoguerra. Essa infatti pur rispondendo a tutti i canoni tipici del marchio segnava senza dubbio una forte rottura con i modelli precedenti. Il modello rimase sul mercato fino al 1984 quando venne sostituita dalla Alfa Romeo 90 Nel tentativo di dare alla nuova autovettura un aspetto che rispecchiasse l’innovazione che essa andava ad introdurre nel campo tecnico la scelta cadde su una linea tutta nuova e che segnò un punto di rottura con lo stile di tutti i modelli precedenti ma che avrebbe ispirato a lungo l’evoluzione della gamma della casa del Portello nonostante non fosse innovativa, apprezzata ed efficiente quanto quella della Giulia.

La linea dell’Alfetta, opera del Centro Stile Alfa Romeo, era abbastanza squadrata e spoglia di venature e pieghe, moderna per l’epoca ma un po’ troppo anonima se non fosse per il frontale tipicamente Alfa Romeo con i doppi fari tondi in cornici cromate e lo scudetto in posizione centrale. Guardavano alla tradizione i paraurti a lama in acciaio inox, le tre barre cromate sulla calandra e le maniglie delle portiere. Così se la parte anteriore era bassa, raccolta e relativamente slanciata la parte posteriore presentava la novità più evidente: La coda alta che oltre a garantire vantaggi sul piano aerodinamico offriva una capacità di carico quasi da record per la categoria.

All’interno non ci si era discostati dalla tradizionale formula Alfa Romeo. La plancia con la didascalia “Alfetta” in corsivo e gli inserti tipo legno era completata da un quadro strumenti completo e soprattutto molto leggibile che comprendeva oltre al tachimetro e al contagiri gli indicatori di livello carburante, temperatura acqua e pressione lubrificante oltre a una completa dotazione di spie.

Il posto guida, ben realizzato, favoriva la guida a braccia distese e prevedeva anche la regolazione in altezza del volante. L’abitacolo era nel complesso molto accogliente e spazioso; l’assenza del cambio all’uscita del motore infatti aveva permesso di snellire abbastanza la parte anteriore del tunnel centrale tanto da dare un'incredibile sensazione di spazio ai posti anteriori. Quelli posteriori pur disponendo invece di molto spazio in senso longitudinale erano inficiati dall’ingombrante presenza del cambio posteriore che aveva costretto i progettisti dell’Alfa Romeo a gonfiare il tunnel centrale tanto da compromettere il comfort del passeggero posteriore seduto al centro.

Il portabagagli seppur di generosissime dimensioni non era sfruttabile a pieno per via della molto alta soglia di carico che poteva costringere a fastidiosi sollevamenti e tendeva ad aumentare il pericolo di danneggiare la carrozzeria negli usi più intensi. Sotto il piano di carico trovavano posto la ruota di scorta e il serbatoio carburante di 50 litri. L’ampia vetratura garantiva una buona visuale in ogni direzione e solo in retromarcia la spiovente coda necessitava di una buona dose di pratica prima di poterne valutare correttamente l’ingombro. La dotazione, seppur non eccezionale, era buona per l’epoca e sarebbe stata arricchita con il passare delle generazioni sino ad arrivare alla fin troppo ricca ed elaborata Quadrifoglio oro del 1983.

Quello che lasciava a desiderare, come spesso era accaduto nella storia dell’Alfa, erano le finiture, solo approssimative e non di rado piene di difetti di lavorazione e di materiali di scarsa qualità. Ma gli Alfisti veri non compravano certo le loro macchine per sfoggiare la cura costruttiva di sedili e guarnizioni, quello che contava maggiormente erano le prestazioni e infatti la parte del leone era, secondo la tradizione, riservata alla raffinata meccanica.


La meccanica

Il classico bialbero Alfa Romeo di 1779 cm³ derivava direttamente da quello della 1750 modificato nella forma dei collettori di scarico e della coppa dell’olio per permettere di elevarne la potenza a 122 CV DIN ed aveva caratteristiche tecniche in parte non ancora completamente diffuse oggi tra i propulsori moderni. Costruito completamente in lega di alluminio aveva le canne dei cilindri di ghisa riportate. I due alberi a camme in testa mossi da una doppia catena silenziosa anteriore che garantiva un eccellente affidabilità e durata, azionavano direttamente le valvole attraverso i bicchierini in bagno d’olio ad essi interposti, il che se da un lato rispondeva a esigenze di affidabilità e sportività costringeva ad una scrupolosa manutenzione nel controllarne il gioco. Le due valvole inclinate per formare una camera di scoppio emisferica ad alto rendimento erano raffreddate dalla presenza nello stelo di sodio che ne diminuiva la temperatura durante l’uso passando dallo stato solido a quello liquido e garantendo così una più lunga durata delle stesse. Il tutto era raffreddato dal liquido contenuto nel circuito sigillato provvisto di radiatore con la ventola per la prima volta mossa da motore elettrico azionato da un termostato anziché direttamente dal motore come sulla 1750. L’alimentazione era assicurata da due carburatori orizzontali doppio corpo Weber 40 DCOE/32 riforniti di carburante dalla pompa meccanica. Vennero allestite anche vetture destinate al mercato d’oltreoceano provviste di iniezione meccanica Spica.

La novità vera fu l’inedito posizionamento del cambio a 5 marce al retrotreno in blocco con differenziale e frizione azionata idraulicamente. Tutto questo in vista di un pressoché perfetta distribuzione dei pesi che migliorasse il comportamento stradale secondo l’esperienza maturata con le vetture da corsa. Ma inedito era anche lo schema delle sospensioni posteriori che adottavano per la prima volta su una vettura stradale della casa un raffinato ponte De Dion costituito da un traliccio di tubi d’acciaio triangolare con il vertice imperniato anteriormente che mirava alla riduzione delle masse non sospese in modo da garantire una maggiore motricità alle ruote posteriori. A tale scopo i freni a disco posteriori vennero spostati dalle ruote al centro e posizionato all’uscita dal differenziale dei semiassi oscillanti. Uno schema meccanico simile era già stato sperimentato con successo sulle monoposto della casa che avevano fatto incetta di vittorie. Su vetture di serie tali soluzioni tecniche invece erano state relegate per lo più a modelli di classe elevata come la Lancia Aurelia degli anni 50 di cui l'Alfetta imita il sofisticato schema tecnico Transaxle con freni sospesi al posteriore inaugurato dalla Lancia.
Le sospensioni anteriori indipendenti seguivano lo schema a bracci trasversali oscillanti e usavano come elementi elastici delle barre di torsione. Il tutto era completato da ammortizzatori idraulici e barre stabilizzatrici sia sull’avantreno che sul retrotreno. I freni erano tutti a disco con comando idraulico a doppio circuito, servofreno a depressione e limitatore di frenata sul retrotreno. Il freno a mano agiva sulle ruote posteriori.

Comportamento su strada

Il comportamento su strada dell’Alfetta continuava la tradizione della casa con doti dinamiche sportiveggianti. La tenuta di strada era eccellente anche se caratterizzata da un certo rollio. Il comportamento in curva era fondamentalmente neutro anche alle alte velocità, proprio in virtù della perfetta distribuzione dei pesi. Se portata al limite l’Alfetta presentava un sensibile sottosterzo iniziale che ne rendeva la guida facile anche a piloti non troppo esperti. Solo esagerando con l’acceleratore o nelle curve molto strette, dove si sentiva il bisogno di un differenziale autobloccante, il retrotreno poteva riservare qualche sorpresa. Il motore, pur avendo guadagnato 8 CV rispetto alla versione montata sulla 1750 si dimostrò molto grintoso agli alti e particolarmente elastico ai bassi e medi regimi, permettendo sia una guida sportiva che una rilassata con un occhio al comfort e ai consumi.

Nelle prove su strada dello stesso anno l’Alfetta si dimostrò capace di raggiungere i 184 km/h di velocità massima e con un accelerazione 0-100 km/h in 9,8 sec. si posizionò ai vertici della sua categoria. Il suo tallone d’Achille stava invece nelle caratteristiche del cambio che poco si addicevano al tipo di auto. Esso era infatti caratterizzato da una difficoltosa manovrabilità specialmente in scalata per le prime due marce e da una consistente rumorosità. Anche la frizione non era esente da critiche per il suo brusco innesto. L’impianto frenante aveva una buona potenza, una buona modulabilità ed era insensibile alla fatica anche se era caratterizzato da una certa durezza di azionamento. Lo sterzo, per la prima volta a cremagliera su un’Alfa, era molto preciso e pronto.


L’evoluzione della gamma

Nel 1975, in piena crisi petrolifera, venne presentata la versione semplificata dell’Alfetta, che come prevedibile montava un motore con cilindrata ridotta a 1600 cm³ e potenza di 109 CV. Il nuovo propulsore deriva direttamente dalla versione di 1800 cm³ a cui vengono ridotti sia l’alesaggio che la corsa sostituendo cilindri, pistoni e albero motore. Esternamente era facilmente distinguibile per la presenza di una sola coppia di fari sul frontale mentre per il resto la vettura, seppur dotata di allestimento più economico, era abbastanza simile alla sorella maggiore. Il comportamento su strada delle due vetture era molto simile. A risentire della diminuzione di potenza erano soprattutto le doti di ripresa da bassa velocità nelle marce più alte. Il presunto beneficio in termini di consumo invece veniva vanificato dalla necessità di mantenere regimi elevati per ottenere un comportamento brillante.

Versione Anni di produzione Esemplari
Alfetta dal 1972 al 1974 104.454
Alfetta (guida a dx) dal 1972 al 1978 2.011
Alfetta 1.8 dal 1975 al 1983 67.738
Alfetta 1.6 dal 1975 al 1983 77.103
Alfetta 2000 dal 1976 al 1977 34.733
Alfetta 2000 (guida a dx) nel 1977 1.450
Alfetta 2000 L dal 1978 al 1980 60.097
Alfetta 2.0 dal 1981 al 1984 48.750
Alfetta 2000 LI America dal 1978 al 1981 1.000
Alfetta 2000 Turbodiesel dal 1979 al 1984 23.530
Alfetta Quadrifoglio Oro dal 1982 al 1984 19.340
Alfetta CEM nel 1982 1.000
Alfetta 2.4 Turbo Diesel dal 1983 al 1984 7.220
Totale
N.B.:Dati calcolati non ufficiali 448.426

Contemporaneamente l’Alfetta 1.8 subì qualche lieve ritocco estetico facilmente individuabile nello scudetto Alfa ora più largo. Il suo motore invece subì una riduzione di potenza che lo portò a 118 CV. Nel 1977, al salone di Ginevra, viene presentata l’ Alfetta 2000. La versione due litri porta molte novità. Per iniziare essa è facilmente distinguibile dalle sorelle minori per il frontale ridisegnato che ora oltre a essere più basso e più lungo di ben 10 cm presenta due fari rettangolari. I paraurti sono sempre in acciaio inox ma hanno ora gli angoli in materiale plastico e incorporano inserti in poliuretano e anteriormente anche gli indicatori di direzione. I finestrini anteriori perdono il deflettore e i gruppi ottici posteriori sono maggiorati. All’interno spicca subito la nuova plancia tutta di materiale plastico e il volante di nuovo disegno. Nel complesso la linea appare più moderna anche se più anonima e meno sportiva. Il motore deriva direttamente dalla versione 1800 cm³ di cui mantiene anche l’originaria potenza di 122 CV. L’aumento di cilindrata viene ottenuta aumentando l’alesaggio ma mantenendo la corsa invariata. Viene migliorata l’insonorizzazione delle parti meccaniche e le sospensioni sono maggiormente votate verso il confort. Nel frattempo le versioni 1.6 e 1.8 vengono unificate negli allestimenti e nell’aspetto. Nel 1978 la 2000 diventa “Lusso” grazie a finiture più accurate e il motore viene potenziato a 130 CV. Con l’Alfetta 2.0 turbodiesel nasce nel 1979 la prima vettura italiana sovralimentata a gasolio. Esternamente distinguibile dalla versione a benzina solo per le feritoie di aerazione sui paraurti anteriori questa vettura è spinta da un motore costruito dalla italiana VM che fornisce 82 CV e spinge la vettura ad oltre 155 km/h. L’aumento di peso dovuto al nuovo propulsore impone un irrigidimento delle sospensioni e una maggiore demoltiplicazione dello sterzo. Anche i rapporti del cambio vengono adeguati. Nello stesso anno la versione 1.8 riacquista gli originari 122 CV di potenza massima ora a 5300 giri/min. anziché a 5500 giri/min.

Nel novembre 1981 tutta la gamma viene unificata usando per tutte le motorizzazioni la rinnovata scocca della 2000 aggiornata in vari dettagli estetici quali le fasce paracolpi laterali e le fasce sottoporta in plastica nera. Meccanicamente le modifiche maggiori le subiscono il cambio con i rapporti allungati e le sospensioni ora più morbide e votate completamente al confort. A risentirne maggiormente fu il comportamento sportivo della vettura. I potenti motori della 2.0 e della 1.8 avevano perso la loro grinta acquistando però notevole elasticità e progressività. Le prestazioni rimanevano comunque elevate. Il comportamento stradale perse la sua agilità da sportiva e l’inserimento in curva divenne molto lento e notevolmente sottosterzante senza però mai perdere la sua proverbiale tenuta di strada.

Nel 1982 venne presentata l’Alfetta Quadrifoglio, esternamente riconoscibile per i doppi proiettori circolari. Da menzionare anche una versione speciale sperimentale denominata CEM costruita in meno di mille esemplari e dotata di un motore 2000 ad iniezione elettronica dal funzionamento modulare. Esso permetteva il funzionamento di due soli cilindri quando la potenza richiesta era bassa consentendo un cospicuo risparmio di carburante ma mantenendo comunque disponibile tutta la potenza. Nel 1983 tutta la gamma subì l’ultimo lifting a base di fasce paracolpi laterali molto estese, cornice plastica dei fanali posteriori e colorazione scura di molte parti della carrozzeria quali i montanti anteriori del tetto che ne resero l’aspetto otticamente pesante e fin troppo elaborato.

Anche l’Alfetta Quadrifoglio Oro venne aggiornata con l’aggiunta di uno spoiler anteriore, di sedili posteriori con poggiatesta integrato e un nuovo quadro strumenti dalla grafica poco chiara affiancato alla destra da un quadro ausiliario fornito di check control e di un orologio digitale. Il motore venne dotato di accensione e alimentazione a controllo elettronico Bosch Motronic e per la prima volta su un automobile di serie anche di variatore di fase sull’albero a camme del lato aspirazione.

Alla versione 2.0 turbodiesel ne venne affiancata una con motore, sempre VM, di 2400 cm³ e potenza di 95 CV. Dopo essere stata venduta in quasi mezzo milione di esemplari ed essere stata la berlina 2000 più venduta in Italia, le vendite delle ultime versioni calarono drasticamente sancendo l’uscita di scena definitiva dell’Alfetta nel 1984. Il suo pianale e la meccanica tuttavia ebbero una vita lunghissima che si protrasse con l’Alfa 75 sino alla prima metà degli anni ’90 e diedero vita a una moltitudine di modelli tutti molto apprezzati per le doti dinamiche. Per completezza d'informazione, si ricorda che la linea dell'Alfetta viene adottata, dal 1974, anche per la brasiliana FNM - Alfa Romeo 2300, ma si tratta di una mera somiglianza estetica, essendo la "2300" molto diversa per dimensioni e, soprattutto per tecnica.

Dati tecnici

Caratteristiche tecniche Alfa Romeo Alfetta 1.8 - 1972
Motore 4 cilindri in linea ciclo Otto in lega leggera
Cilindrata 1.779 cc (Alesaggio x corsa = 80 x 88,5 mm)
Distribuzione A 2V, doppio albero a cammes in testa e doppia catena
Potenza max 122 CV DIN (140 CV SAE) a 5500 giri/min - Versione 1972
Coppia max 17 mkg DIN (167 Nm) a 4400 giri/min
Frizione posteriore all’entrata del cambio, monodisco a secco con comando idraulico
Cambio Posteriore in blocco coi freni a 5 rapporti + RM
Trasmissione Posteriore ad albero in due sezioni con ponte De Dion
Scocca Metallica autoportante a struttura progressivamente differenziata
Sospensioni ant. Indipendenti, bracci trasversali oscillanti, barre di torsione longitudinali, barra antirollio, ammortizzatori idraulici telescopici
Sospensioni post. Molle elicoidali a flessibilità variabile, bracci longitudinali di spinta e reazione, parallelogramma di Watt trasversale, barra antirollio, ammortizzatori idraulici telescopici
Impianto frenante A disco con doppio circuito sulle 4 ruote, comando idraulico, servofreno a depressione e limitatore di frenata al retrotreno, freno a mano posteriore
Pneumatici 165 SR 14 (dall’82 optional 185/70 HR 14)
Lunghezza 4.280 mm
Larghezza 1.620 mm
Altezza 1.430 mm
Passo 2.510 mm
Peso a vuoto 1.060 kg
Serbatoio 49 litri
Accelerazione 31,8 sec. sul km da fermo
Velocità massima 180 km/h
Consumo a 90 km/h: 6,7 - a 120 km/h: 8,9 - urbano: 12,0 lt/100 km


Oltre la berlina

Dal modello base berlina, utilizzandone il pianale e varie parti meccaniche, nacquero altri modelli più sportivi in conformazione classica di coupé quali la Alfetta GT e la successiva Alfetta GTV.

L'Alfetta nell'immaginario collettivo


Già dall'anno successivo alla sua presentazione, l'Alfetta fu il modello più aquistato dalle forze di Polizia e dai Carabinieri, divenendo in breve tempo l'automobile-simbolo delle forze dell'ordine italiane e sostituendo gradatamente le mitiche "pantere" e "gazzelle" su base Giulia Super, in dotazione negli anni '60.
Sono innumerevoli le pellicole cinematografiche poliziesche e poliziottesche dell'epoca dove è spesso protagonista di spericolati inseguimenti.

Molto utilizzata anche dall'establishment politico, la troviamo spesso in filmati giornalistici o telefoto che immortalano l'Alfetta accanto ai più importanti personaggi del tempo.
 

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